Taranto, Museo archeologico

Il rinvenimento fortuito delle sepolture di via G. Martino (già Via Sceciola, 2) è datato ai primi giorni di aprile del 1898. La scoperta, ignota agli organi dello Stato, divenne pubblica solo in seguito al sorgere di controversie tra i privati cittadini, proprietari dei fondi nei quali erano stati rinvenuti i reperti e venuti in contrasto in merito al possesso dei ricchi corredi ritrovati. Intervenuti, dunque, per evitare la dispersione dei corredi, l’ispettore dei Monumenti e scavi di Bari, Giambattista Nitto de Rossi, e il Direttore del Museo Provinciale di Bari, Maximilian Mayer, compresero subito il notevole valore dei ritrovamenti. Dalle notizie riportate nel rapporto di Maximilian Mayer si apprende che le tombe erano del tipo a semicamera, realizzate con grandi blocchi di tufo intonacati e dipinti in rosso cinabro e in nero. Il corredo delle sepolture, ricchissimo, attirò l’interesse del commercio antiquario; per questo motivo, circa due anni dopo il rinvenimento, intervenne anche la Direzione Generale per le Antichità e Belle Arti a imporre il divieto di esportazione e alienazione dei reperti. Negli stessi anni, Quintino Quagliati assumeva il ruolo di Direttore del Museo Nazionale di Taranto, impegnandosi nella raccolta e nell’esposizione dei notevoli reperti antichi provenienti dai principali siti inclusi nel vasto territorio di sua competenza che, oltre all’area tarantina comprendeva il Materano, la Capitanata, la Terra di Bari e il Salento. Nell’ambito di questa attività il Direttore del Museo di Taranto assicurò l’acquisto dell’insieme degli oggetti rinvenuti in Via G. Martino a favore del museo della città ionica (inv. 8244-8323), per un importo di L. 7.500.

Circa i reperti provenienti dalla scoperta di Via G. Martino, nei suoi caratteri generali la tipologia di tombe e l’analisi del contesto mostrano elementi di incerta omogeneità. Tra gli oggetti, la presenza di vasi nuziali (lèbetes gamikòi) e vasi per l’acqua (hydrìai) decorati rimandano al cerimoniale matrimoniale e ai soggetti di riferimento della sfera muliebre; tuttavia, queste produzioni non si conformano alla presenza di crateri, coppe e tazze: tutte forme legate, invece, al banchetto della tradizione greca ed elementi destinati alle deposizioni di personaggi maschili di rango elevato. Tra i rinvenimenti si trovano ceramiche di importazione attica e opere di rilevanti maestri della produzione italiota di V secolo come il Pittore dei Niobidi, il Pittore di Eretria, il Pittore della Nascita di Dioniso e il Pittore delle Carnee; sono presenti, inoltre, i pittori lucani di Amiykos e di Dolone. Completano il corredo ceramiche di ottima fattura a vernice nera e decorazione sovraddipinta.
Il complesso tombale di via G. Martino rappresenta, dunque, un contesto particolarmente importante che testimonia la presenza di gruppi dell’élite indigena che nel corso del V e IV secolo dimostrano il progressivo assorbimento dell’ideologia tipica del mondo greco delle colonie magnogreche con le quali, evidentemente, le aristocrazie locali avevano stabilito legami e rapporti diretti, come testimoniato da altri e importanti centri ellenizzati della Peucezia come Ruvo e Rutigliano.